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sabato 22 gennaio 2022

Falsi amici e vera ignoranza!

Voglio parlarvi oggi di falsi amici e di vera ignoranza, nell'ambito della scienza e dell'istruzione in generale.
Mi limiterò ai falsi amici (non tutti proprio falsi amici, come poi capirete) in inglese, visto che dalle altre lingue - francese, tedesco, ecc. - il problema è meno pregnante.

L'esempio più tipico è il nitrogeno. In quanti romanzi e film avete letto o sentito questa parola? In tantissimi!
Però in italiano - per lo meno in italiano moderno - questa parola non esiste.
L'inglese nitrogen in italiano è l'azoto.
Visto che nitrogeno in italiano oggi non esiste, qui in realtà si tratta di pura ignoranza, non di un falso amico. Pura ignoranza. Nient'altro.

I successivi sono invece falsi amici (che possono ingannare una volta, ma se ripetuti sono anche loro alla fine solo crassa ignoranza).

I due ovviamente più famosi che (forse) tutti conoscete, avete incontrato nel corso del tempo hanno di nuovo a che con elementi chimici: carbon e silicon.
Carbon in inglese indica il carbonio, ma la stampa italiana ama tradurlo con carbone, che in inglese si traduce coal.
Silicon invece in inglese significa silicio, ma in Italia lo vedete spesso tradotto con silicone, che in inglese - udite, udite! - invece si traduce con... silicone!

Ma ora lasciamo la chimica e passiamo alla matematica (si fa per dire).
A me è capitato più volte di vedere tradotto addiction con addizione. Ma in inglese addiction non ha niente a che vedere con le somme. Addiction è la dipendenza (da droghe, alcol o qualsiasi altra cosa di carattere fisico-psicologico). L'addizione, la somma in inglese si traduce con sum o - meno usato - addition. Senza c.

E cosa succede quando vogliamo andare a studiare in libreria... ops, no, non in libreria, in biblioteca!
Infatti la library che tutta (o quasi) la stampa italiana traduce con libreria, in realtà è una biblioteca. L'italiana libreria in inglese è bookshop o bookstore (se intesa come negozio) oppure bookcase (se intesa come mobile, come oggetto d'arredamento).

E nelle biblioteche come anche nelle aule universitarie e altri luoghi analoghi... nei paesi anglosassoni si tengono le lectures, che non sono letture. Una lecture nel mondo anglosassone è una lezione oppure una conferenza, o più precisamente il contributo che un partecipante fa alla stessa, una presentazione. La nostra lettura in inglese viene resa con reading.

Però, prima di andare all'università (con o senza biblioteche) un ragazzo normalmente passa dal liceo, talvolta chiamato ginnasio (in Italia il ginnasio sono i primi due anni del liceo classico, in Germania invece il Gymnasium è proprio il liceo).
Ma quindi il gymnasium inglese è anche il nostro liceo? No, non proprio... il gymnasium (alias gym) in inglese viene dal greco antico γυμνάσιον che significa palestra. In inglese la parola gymnasium nel senso di liceo viene usata solo per chi ha studiato in scuole all'estero, in particolare nell'area germanica.
Il nostro liceo in inglese è semplicemente high school.

Ma alla fine tutti questi luoghi sono frequentati da persone desiderose di imparare, no? Infatti sono piene di scolari, cioè di scholars.
Ehm, no, non proprio... le scuole sono sì piene di scolari, ma gli scholars generalmente li trovi nelle università e in altre istituzioni superiori dove al massimo ci sono studenti, non scolari.
Infatti, lo scholar in inglese non è lo scolaro (che in inglese è reso con pupil) ma lo studioso, il ricercatore (soprattutto in campo umanistico).

Ma falsi amici si trovano anche quando, dopo gli studi, andiamo a lavorare nell'industria e crediamo di esserci lasciato quanto sopra alle spalle.
Quanto ottimisti eravamo!

Nel nostro lavoro quotidiano ci troveremo ad avere a che fare con dati su cui dobbiamo lavorare. I nostri colleghi anglofoni per il lavoro su questi dati usano il verbo to process... e noi (soprattutto la nostra stampa) da bravi pappagalli parliamo di processare i dati. Sbagliato! To process in italiano si traduce con elaborare. Processare ha a che fare con la giustizia civile e penale e in inglese si traduce con to take to trial (letteralmente: portare a processo). E noi non portiamo in tribunale i dati! (Oddio... i TAR talvolta ci provano...).

Ma neanche le patenti... ops, i brevetti ne escono indenni.
Infatti l'inglese patent viene normalmente tradotto dai nostri giornali con patente. Che (scusate il genovesismo) non c'entra un belino.
L'inglese patent indica il brevetto. Se in un paese anglofono vogliamo una patente per qualcosa dobbiamo fare una domanda per una licence (per esempio la nostra patente di guida è una driving licence, non una driving patent).

E potrei fare tanti altri esempi, ma per ora mi fermo qui.

Magari ci sarà una seconda puntata.

Saluti,

Mauro.

martedì 4 gennaio 2022

Scuola in presenza, scuola a distanza... ma l'istruzione?

Stanno per riaprire le scuole dopo le vacanze natalizie.

E riparte il dibattito "didattica (scuola) in presenza" contro "didattica a distanza" (alias DAD).
Con la solita conflittualità che spesso (purtroppo) trascende i limiti dell'educazione e del rispetto.

Ora mi darete del benaltrista, ma se ci pensate bene il problema vero non è né la scuola in presenza né la DAD.
Il problema vero è il sabotaggio ormai decennale operato dalla politica (con il silenzio accondiscendente della cittadinanza e il plauso delle varie conf, Confindustria in particolare) nei confronti della scuola, dell'istruzione, dell'educazione (e non voglio qui parlare di università e ricerca, che è già di per sé un tema vastissimo).

Non si è fatto niente per mettere in sicurezza le scuole (per tacere poi dei trasporti da e per le scuole).
Niente aerazione meccanica.
Niente filtri.
Niente rivelatori di CO2.
Niente distanziamento (le classi pollaio esistono ancora, eccome se esistono).
Le mascherine poi... a scuola bastano le chirurgiche, non sia mai che siano obbligatorie le museruole FFP2!
Solo finestre aperte a intervalli più o meno regolari (ma poco, se no gli scolari prendono il raffreddore).
Insomma... quarantene, chiusure, classi dimezzate a gogò di fatto già programmate.
E prima o poi DAD di fatto.

Ma non si è fatto niente neanche per permettere una DAD ben fatta.
L'informatica nelle scuole? Primitiva.
Connessioni internet veloci? Beh, sì, veloci rispetto a una tartaruga, questo sì.
Istruzione dei docenti all'uso dei supporti informatici? Non serve, tanto tutti sanno usare uno smartphone (sì, per certi ministri per la DAD basta uno smartphone!).
Fornitura di detti supporti? Lasciamo perdere.
Garanzia di poter seguire in DAD per tutti i discenti? Tutti ormai hanno uno smartphone (vedi sopra)! Non si è tenuto conto delle enormemente diverse possibilità sia economiche che culturali delle varie famiglie. Non tutti gli scolari hanno adeguato collegamento internet e famiglie in grado di seguirli (ne parlai qui già nel marzo 2020... e la situazione non è cambiata di una virgola).

Ergo: in presenza o in DAD sarà comunque una strage.

La politica ha sfruttato la pandemia per dare il definitivo colpo di grazia alla scuola, all'istruzione.

A questo punto non si dovrebbe più discutere su scuola in presenza o DAD.
Come spiegato sopra, ormai sarà un fallimento, una strage comunque.

Ciò che servirebbe sarebbe unirsi tutti per mettere la politica spalle al muro e difendere - anzi ormai ricostruire, visto che è rimasto ben poco da difendere - l'istruzione.
Bisogna mettere da parte particolarismi, egoismi e convenienze personali e rendersi conto di ciò che serve per il futuro (ma anche per il presente!) della società e per le nuove generazioni.

Se no il sogno politico populista di creare una generazione di ignoranti e incompetenti manipolabili si avvererà.
E il processo rischierà di essere irreversibile.

Saluti,

Mauro.

P.S.:
Quest'articolo è uno sviluppo di un thread scritto ieri su Twitter. Qui il thread originale, con vari commenti interessanti da parte dei lettori.

P.S.2:
Il problema non è solo italiano: lo ha fatto notare qui relativamente alla Germania anche l'avvocato Thorsten Frühmark, specializzato in diritto del lavoro e di famiglia.

martedì 21 dicembre 2021

Insegnanti che ti cambiano la vita

A scuola (elementari, medie, superiori) ci sono insegnanti che lasciano il segno in positivo, altri in negativo, la maggioranza - purtroppo o per fortuna - invece non ne lascia proprio.
Questo lo abbiamo sperimentato tutti.
Non vi sto raccontando nulla di nuovo. Tutti sapete di cosa parlo.

Però poi ci sono anche quelli che hanno lasciato un segno indelebile.
Insegnanti che hanno veramente segnato la tua vita. Che la hanno cambiata.
Non solo insegnanti che hanno lasciato un segno positivo, comunque, questo va detto.

Nel mio caso una detta insegnante esiste. E lo ha lasciato positivo. Altro che positivo!
Un'insegnante che ha segnato la mia vita.
E ancora oggi, 39 anni dopo gli avvenimenti di cui parlo, continuo a ringraziarla. Non posso che considerarla la fortuna della mia vita. O almeno una delle più grandi fortune.

Parlo dell'insegnante di educazione artistica che ebbi alle medie, la professoressa Paola Danovaro.

Ora voi salterete sulla sedia... direte: Mauro tu sei laureato in fisica, hai fatto il liceo scientifico... che cavolo c'entra l'educazione artistica?
C'entra, c'entra... ma soprattutto c'entra l'intelligenza di detta insegnante.

Ai tempi (non so come siano le regole oggi, io finii le medie inferiori nel 1982) dovevi fare la preiscrizione alle superiori già prima dell'esame di terza media.
Ma questa preiscrizione non la facevi direttamente, bensì tramite la tua scuola media.
Cioè, tu sceglievi la scuola superiore che volevi frequentare e consegnavi la preiscrizione alla scuola media che frequentavi. In questa scuola c'era un'insegnante (uso il femminile perché nella mia scuola era un'insegnante, ma in altre scuole poteva essere tranquillamente un insegnante) che gestiva queste preiscrizioni per poi passarle alle scuole superiori in questione.

Nella mia scuola media dell'epoca (per lo meno per la mia sezione) l'insegnante a cui era stato affidato detto compito era, appunto, Paola Danovaro, insegnante di educazione artistica.

E lei ovviamente vide a quale scuola superiore volevo preiscrivermi: l'istituto tecnico "Galileo Galilei", più precisamente alla sezione per perito in telecomunicazioni (l'istituto esiste ancora, anche se ovviamente è cambiato in questi quattro decenni).

Una mattina, durante una lezione di italiano, la Danovaro bussò alla porta della classe e chiese all'insegnante di italiano Maddalena Benazzoli Flick (sì, quel cognome lì non è casuale, lo so che lo avete già sentito, era la moglie del futuro ministro di grazia e giustizia e futuro presidente della corte costituzionale Giovanni Maria Flick) "Maddalena, ti dispiace se ti rubo per un po' Venier?".
La Flick non fece resistenza perché sapeva che la collega si occupava delle preiscrizioni per le superiori e quindi pensò che la richiesta riguardasse ciò.
Pensò giusto... ma non credo proprio che potesse immaginare cosa successe dopo.

La Danovaro mi portò nella sala insegnanti, mi fece sedere e mi guardò.
Poi mi disse: "Venier, ma sei pazzo, perché non vuoi andare al liceo, coi tuoi voti e le tue capacità? Perché cavolo ti vuoi iscrivere a un istituto tecnico, anche se ottimo?".

Ecco, qui serve una specie di flashback.
Io vengo da una famiglia operaia: papà operaio e mamma casalinga.
Quindi una famiglia dove, al di là del rispetto per la cultura e l'istruzione, bisogna considerare anche il lato pratico, materiale delle scelte.
E proprio per questo avevo scelto la preiscrizione all'istituto tecnico: anche se io volevo andare un giorno all'università (e mio papà mi sosteneva), volevo anche un piano B... cioè poter avere la possibilità, se necessario, di trovare un lavoro subito finite le superiori.
Non è che la mia famiglia potesse permettersi chissà quali spese, quali impegni.

Però quell'insegnante, la Danovaro, praticamente mi mangiò la faccia.
"Uno come te deve andare al liceo!"

E alla fine andai al liceo (scientifico, ovviamente, il Leonardo Da Vinci... piuttosto che andare al classico avrei fatto lo spaccapietre 😉).

E poi andai all'università, dove mi laureai in fisica.

E poi mi sono costruito una carriera nell'industria.

Ma senza la professoressa di educazione artistica Paola Danovaro non so dove sarei arrivato. Probabilmente a molto meno di quello che ho ottenuto.
Di sicuro, se poi avessi deciso di rinunciare all'università, ascoltarla mi avrebbe danneggiato.
Ma io in realtà sapevo già da allora che all'università volevo andarci, e probabilmente il piano B di cui sopra sarebbe stato in questo senso dannoso, perché vista la qualità dell'istituto tecnico in questione avrei avuto troppe offerte per andare subito a lavorare e quindi motivi per rinunciare all'università.

Talvolta ci sono insegnanti che ti cambiano la vita. Letteralmente.
Io un'insegnante che lo ha fatto la ho avuta.
E non la dimenticherò mai.
Le sarò sempre riconoscente.

Saluti,

Mauro.

domenica 20 dicembre 2020

Le cose vanno fatte quando non servono

Ultimamente, in relazione alla seconda ondata del COVID19, ho sempre più vivido e chiaro il senso di una frase che usava dire il mio comandante a militare, un colonnello degli Alpini, 30 anni fa: "Le cose le devi fare quando non servono, perché quando servono è tardi".

Cosa significa?

Significa che devi prevenire le emergenze, prima di affrontarle. Nel momento in cui l'emergenza arriva, se non avevi agito prima, puoi reagire anche nel modo più grandioso che ci sia, ma potrai solo limitare i danni. La reazione è nella maggior parte dei casi solo un pannicello caldo.

E cosa c'entra col COVID19? Che nel momento in cui la prima ondata sembra finire, tu devi pensare al dopo, non all'immediato. Come coloro che venivano definiti "moriremo tutti" o "catastrofisti" (cioè noi che su Twitter ci riconosciamo nel #GruppoCassandra o nel #TeamFauci) da certi medici ed economisti hanno sempre sostenuto: non aprire perché i numeri calano, valuta prima come probabilmente andranno i numeri se (e come) apri. E poi decidi.

Invece no. Invece liberi tutti.

Ma oltre a questo... sfrutta la "pausa" per rinforzare il sistema sanitario, il sistema di controllo.
Non riposare sugli allori.
Invece no. Neanche questo. Niente è stato fatto.
Ricordatevi poi sempre una cosa (e ve lo dico occupandomi di qualità nell'automotive e nella tecnologia medicale, quindi qualche conoscenza la ho): un sistema complesso deve sempre essere tarato sul "worst case". E sanità, istruzione, protezione civile sono sistemi complessi. Gli automatismi di sicurezza devono essere basati sul peggio che possa capitare, non sulla situazione media. Vale in un'automobile come in un sistema sanitario.
E questo nella sanità, nell'istruzione, nella protezione civile non c'è (né in Italia né nella maggioranza degli altri paesi).
Tra la prima e la seconda ondata abbiamo fallito (fallimento anche figlio di politiche precedenti alla pandemia, comunque). Ormai è evidente che falliremo anche tra seconda e terza (anche se la seconda non è ancora finita). Speriamo che dopo la terza impareremo per le pandemie future (che ci saranno, eccome se ci saranno, anche grazie al cambiamento climatico, come scrissi qui).

Tornando al "fare le cose quando non servono", vi segnalo un'interessantissima intervista a Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler di Trento. In particolare una frase: "Si deve intervenire quando la situazione non è ancora grave, perché se aspetti quel momento è già tardi".
Riciclando lo slogan di una vecchia pubblicità: meditate, gente, meditate.

Saluti,

Mauro.

lunedì 30 marzo 2020

Covid-19 e istruzione

Con la pandemia in corso siamo tutti focalizzati sui rischi medici ed economici.
Ma c'è una terza categoria di rischio molto seria: quella legata all'istruzione.
Un tema che è già stato trattato da molti, più competenti e aggiornati di me, ma nelle cui trattazioni vedo sempre mancare l'ultimo passaggio (se poi mi è solo sfuggito, meglio: talvolta è bello avere torto).

La presente pandemia ha costretto l'istruzione a interrompersi o a spostarsi su lezioni telematiche.
È un problema globale, non solo italiano.
Ci sono scuole e insegnanti che erano più preparati digitalmente e hanno potuto affrontare meglio la situazione e quelli che lo erano meno, ma il problema vero è un altro.

Premetto, prima di venire al sodo: parlo di scuola, non di università. Ovviamente anche le università hanno avuto problemi ma un'università, proprio strutturalmente, può gestire situazioni simili molto meglio di una scuola.

Veniamo al sodo. In questo momento gli alunni sono a casa.
Nei casi migliori a seguire lezioni telematiche e a lavorare online con insegnanti e compagni.
Nei casi peggiori affidati a sé e alle capacità e volontà dei genitori.
E questo è noto.
Noto è anche che un alunno proveniente da una famiglia di basso livello culturale ed economico ha come istruzione solo vantaggi a stare di più a scuola e di meno a casa.
I genitori non sono in grado di aiutarlo a sufficienza oppure gli mancano i mezzi tecnologici adeguati.
E quindi al gap che, tranne rare eccezioni, già c'è di base, perché l'aiuto dei genitori è importante anche in tempi normali, si aggiungono ulteriori gap dovuti all'avere meno contatti con insegnanti e compagni e al non potere seguire altrettanto bene a causa di tecnologia non adeguata.

Io qui vorrei soffermarmi in particolare sul problema tecnologico.
È vero che ormai uno smartphone lo hanno tutti.
Ma per le lezioni telematiche non basta.
In tutto il mondo si parla da lustri della digitalizzazione della scuola. Ma sempre presupponendo presenza in classe.
Poco si è fatto (ovunque) per tener conto anche delle possibilità in remoto.
Poco (o nulla) si è fatto per permettere a tutti gli alunni di avere le stesse possibilità (o almeno simili) anche da casa.
Eppure, anche senza pandemia, si poteva immaginare un aumento del remoto (e aumenterà ancora in futuro).


E fin qua sono tutte cose che hanno già detto anche altri, spesso meglio di me, con più competenza e più dati a disposizione.
Ma ho notato che spesso l'analisi finisce con la considerazione che al ritorno in classe il gap di cui parlavamo sarà aumentato. 

Quello di cui si sente parlare poco o nulla è cosa significherà poi quel gap.
A quel punto la scuola avrà purtroppo solo due possibilità.
1) Rallentare chi è avanti per far recuperare chi è indietro.
2) Abbandonare chi è indietro per non danneggiare chi è avanti.

Ed entrambe sono scelte che danneggiano sia i singoli alunni che il paese.
Perché?
Nel caso 1) ti costruisci una generazione di mediocri, indipendentemente da intelligenza e provenienza.
Nel caso 2) perdi per strada potenziali eccellenze e costruisci una bomba sociale. 

Nel decidere spese e investimenti da fare per gestire e superare la pandemia, teniamo conto anche di questo e pensiamo anche all'istruzione.
Non sono vite attaccate a un respiratore in terapia intensiva ma sono vite che, se fatte fallire, possono portare in terapia intensiva il paese tutto.

Saluti,

Mauro.

domenica 10 settembre 2017

La lotta alle bufale: istruire prima di sbugiardare

Qualcuno dei miei pochi lettori si sarà chiesto come mai io non abbia detto la mia sulla lotta alle bufale con un articolo espressamente dedicato.

Beh, ne hanno parlato e sparlato talmente in tanti che alla fine riparlarne significava solo contribuire a nascondere il problema (infatti alla fine la gente si è stufata di sentirne parlare).
E ora che le acque si sono calmate posso finalmente dire la mia :-)

Prima cosa: sbugiardare è secondario, non è la cosa più importante.
Sbugiardare con grande tam tam mediatico è veramente importante solo quando le bufale provocano problemi, danni concreti e potenzialmente permanenti (in particolare quando si tratta di salute, tipo la bufala su autismo e vaccini).
In tutti gli altri casi sbugiardare con detto tam tam significa solo dare ulteriore visibilità alla bufala stessa, dandogli dignità mediatica che (forse) senza sbugiardamento non avrebbe avuto.
È chiaro che ogni notizia falsa va quando possibile corretta, però l'artiglieria pesante va tirata fuori solo nei casi di cui sopra.

E allora cosa serve per difendersi dalle bufale?
Serve la prevenzione. E la prevenzione si ottiene tramite l'istruzione.

E non mi riferisco tanto a questioni di conoscenze, ma di metodo.
Certo è importante conoscere le scienze, le lingue, eccetera (in primis e obbligatoriamente la matematica e la lingua del paese dove si vive, a seguire poi il resto)... ma ancora più importante è il saper pensare, l'avere un metodo nell'affrontare le informazioni (corrette o meno che siano) che ci arrivano da tutte le parti: la scuola deve insegnare il pensiero critico, l'uso della logica.

Se una persona sa pensare criticamente, sa usare almeno le basi della logica riconoscerà in maniera praticamente automatica la maggior parte delle bufale, senza neanche bisogno di conoscenze specifiche e senza bisogno dell'intervento dei cosiddetti debunker.

E così facendo si crea anche un circolo virtuoso: più pensi più impari a pensare, più usi critica e logica più affini le tue capacità critiche e logiche.
Mentre se aspetti sempre che arrivi qualche esperto (o presunto tale) a sbufalare... al massimo affini le tue capacità di lettura, ma atrofizzi tutto il resto. Non pensi.

Il miglior debunker è l'istruzione.
E l'istruzione arriva da famiglia e soprattutto scuola, non da stampa e internet.

Ribadisco: la scuola deve insegnare il pensiero critico, l'uso della logica.

Saluti,

Mauro.

domenica 21 maggio 2017

Il decreto sbagliato sul giusto obbligo di vaccinazione

Il governo ha approvato il decreto proposto dalla ministra Lorenzin (ministro della Salute) per l'obbligatorietà della vaccinazione per potersi iscrivere alle scuole dell'infanzia (comunemente ancora note come asili).

Lorenzin originariamente voleva estendere detto obbligo (giustamente) anche alla scuola primaria (precedentemente nota come scuola elementare), ma l'opposizione della sua collega incompetente Fedeli (abusiva ministra dell'istruzione, dell'università e della ricerca pur non possedendo nessuna istruzione) ha evitato ciò.

Ora, io non so perché Fedeli si è opposta all'obbligo (o meglio lo sospetto, ma preferisco evitare querele quindi taccio... dico solo che molto probabilmente c'è di mezzo anche il Codacons)... ma una cosa la so: senza obbligo di vaccinazione per l'accesso alla scuola primaria il decreto è inutile.

Perché?
Perché alle scuole dell'infanzia non è obbligatorio iscriversi e infatti, vaccini o non vaccini, molti genitori non iscrivono i propri figli a dette scuole.
Le scuole primarie invece sono obbligatorie, tutti devono frequentarle... ergo, senza obbligo, l'immunità di gregge (che è la vera utilità dei vaccini, al di là della protezione personale) va a farsi friggere.

Quindi la ministra (abusiva) Fedeli ha semplicemente deciso che in Italia devono avere via libera malattie facilmente debellabili grazie ai vaccini. E non è neanche ministra della Salute, quindi in teoria neanche dovrebbe avere voce in capitolo (anche tenendo conto che la vera ministra della Salute sa fare il suo lavoro, simpatica o antipatica che sia).

Saluti,

Mauro.

giovedì 12 gennaio 2017

Analfabetismo e analfabetismo funzionale

Oggigiorno l'analfabetismo funzionale è un problema (e non solo in Italia).

Un problema di cui non si parla è però la confusione che l'informazione fa tra analfabetismo tout court e analfabetismo funzionale.
Due cose diverse tra loro, ma che la stampa comincia a farci credere che siano la stessa cosa.

La differenza però c'è. E non è piccola.

L'analfabetismo tout court significa non saper leggere e scrivere. E, per lo meno in Europa, è quasi scomparso (purtroppo solo quasi).
L'analfabetismo funzionale significa saper leggere e scrivere, ma non saper capire quello che si legge.

E no, non è neanche un problema "cronologico", cioè prima impari a leggere e scrivere e poi a capire.
Potrei presentarvi un sacco di persone che leggono con difficoltà, ma che una volta letto dimostrano di aver capito quanto letto. E altrettante persone che leggono scioltamente ma alla fine non hanno capito un belino di quanto letto (anche laureati...).

Il fatto è che l'analfabetismo tout court riguarda l'istruzione, quello funzionale la cultura.
E per quanto istruzione e cultura abbiano molti punti di contatto, non sono sinonimi, non sono la stessa cosa.

L'istruzione puoi imporla per legge (e i paesi civili infatti lo fanno).
La cultura devi promuoverla, non puoi imporla. Ed è molto più faticoso (per questo quasi nessun paese - civile o non civile che sia - lo fa).

Saluti,

Mauro.

sabato 12 dicembre 2015

Il problema con le banche e i bilanci

Il fatto è che l'economia in realtà è pura matematica.
Purtroppo non si è visto ancora un economista che sapesse anche solo un minimo di vera matematica (quella insegnata nelle facolta di economia non è matematica, è giocare coi numeri).

I problemi saranno quindi risolti solo quando per legge si impedirà ai laureati in economia di lavorare in banche, assicurazioni e ministeri.

Saluti,

Mauro.

lunedì 1 giugno 2015

Una buona idea nell'ambiente sbagliato

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere su Neues Deutschland un interessantissimo articolo del bravo giornalista tedesco Roberto De Lapuente dedicato ai referenda e al fatto se è il caso di far decidere alla volontà popolare su temi che possono essere sfruttati demagogicamente (o, aggiungo io, su questioni tecniche, complicate che pochi possono veramente capire bene) e la sua conclusione è scettica, pur non essendo lui in principio contrario ai referenda.
L'articolo si intitola Gute Idee im schlechten Umfeld (letteralmente "Una buona idea in un cattivo ambiente", ma in italiano rende meglio "Una buona idea nell'ambiente sbagliato").
Chiaramente De Lapuente si riferisce alla situazione tedesca. Ma il suo discorso è applicabile con minime correzioni anche all'Italia e a (quasi) ogni altro paese.

Con il suo permesso pubblico qui sotto la traduzione del suddetto articolo.
Grazie Roberto.

Saluti,

Mauro.

P.S.:
In realtà io all'articolo ci sono arrivato tramite il suo blog Ad Sinistram, che consiglio a chiunque sa leggere il tedesco.

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Neues Deutschland, 28.05.2015

Una buona idea nell'ambiente sbagliato

Dopo il referendum e le sue conseguenze sul matrimonio omosessuale in Irlanda, alcuni ritengono di nuovo che giunto il momento di indire anche in Germania più referenda. In sè è una buona idea di democrazia di base. Solo le condizioni al contorno rendono scettici.

Naturalmente una persona di sinistra ha un debole per forti elementi di partecipazione in ogni campo. Se essere di sinistra significa qualcosa, allora significa essere veementemente per il fatto che le persone si gestiscano, organizzino autonomamente e conseguentemente debbano partecipare ai necessari processi decisionali. I referenda sono, particolarmente tra persone di sinistra, classici mezzi per cui ci si debba impegnare. Io ritengo gli argomenti a favore dei referenda completamente condivisibili. Ma il tutto mi provoca mal di pancia. Perché per qualche motivo partiamo dal presupposto di trovarci nelle condizioni ottimali: il cittadino colto e che pondera con intelligenza prende una decisione. E proprio a questo punto la bella teoria traballa.


Si possono naturalmente citare grandi momenti delle consultazioni popolari, per supportare questa idea fondante della democrazia di base. Risultati appunto come quello che ha visto la luce la scorsa settimana in Irlanda. Quando la maggioranza della gente vota per far sì che anche gay e lesbiche d'ora in avanti possano contrarre matrimonio, uno potrebbe anche essere orgoglioso per il referendum come mezzo di partecipazione. Il problema è che talvolta ne viene fuori anche un sacco di porcheria.

Basti pensare agli svizzeri che seguendo un impulso islamofobo si sono espressi contro i minareti e di conseguenza contro la libertà di religione. Se nei mesi precedenti Hartz IV, durante la sbornia generale per l'Agenda 2010, si fosse chiesto alla gente se bisognasse tenere al guinzaglio i disoccupati, cosa ne sarebbe venuto fuori? Può sembrare pura speculazione, ma il clima contro i parassiti sociali era già stato preparato. Il vento nuovo di queste "riforme sociali" era ampiamente apprezzato. E cosa sarebbe successo se la settimana scorsa si fosse chiesto al popolo se la riduzione dell'autonomia sindacale fosse giusta?

Nel mio libro "Unzugehörig" ("Non appartenente") invitavo già qualche anno fa a riflettere sul fatto che "in un mondo dove la formazione dell'opinione pubblica è concentrata, difficilmente ci si [può] immaginare il prezioso bene della consultazione popolare". Perché i cittadini di una mediocrazia, quale questa è, che si informano sulla stampa scandalistica e si devono lasciar istruire dalla Bild e formare economicamente dall'INSM, in realtà esercitano solo molto limitatamente un "libero" voto. Riproducono semplicemente nella cabina elettorale ciò che gli opinion maker gli hanno instillato in testa. Si indica sì la loro scelta come libera volontà, ma, come scrissi ulteriormente allora, "esaminando bene, non [è] altro che la rappresentazione inoculata, premasticata, sempre ripetentesi, spezzettata, gonfiata, condizionata, limitata e strozzata di un mondo come ci viene instillata in maniera mediaticamente efficace attraverso l'etere".

Detto più semplicemente, per ridurlo a uno semplice slogan: dove gruppi industriali come Springer o Bertelsmann guidano l'opinione pubblica, dove la Bild-Zeitung e RTL liquidano le persone con punti di vista monodimensionali sugli avvenimenti in Germania e nel mondo, lì allora la consultazione popolare non è più una così buona idea, forse è addirittura l'opposto. Diventerà uno strumento di approvazione popolare per concetti neoliberali, idee reazionarie e anacronistiche retromarce. Per la serie: "Noi ve lo abbiamo chiesto - voi lo avete approvato e perciò avete così voluto!". E il fondamento per la decisione lo si è preso così da coloro che hanno formato l'opinione pubblica contro i rifugiati economici, i musulmani o i macchinisti. Uno deve pur prendere le proprie informazioni da qualche parte.

Prima che i sostenitori della democrazia di base si delizino con sogni referendari, bisognerebbe sognare come liberarsi dall'incubo che le truppe di Bertelsmann e Springer vendono quotidianamente come giornalismo illuminato e non unilaterale. Solo allora la consultazione popolare potrà andare bene. Forse.

Roberto J. De Lapuente