martedì 28 luglio 2020

Il rasoio di Occam... sicuri di averlo capito?

Normalmente il rasoio di Occam viene espresso nella forma secondo cui la spiegazione più semplice per un fenomeno è quella più probabile, quella da preferire.
Sembra ragionevole, però...
Però c'è un problema: cosa significa "semplice"? È una parola un po' troppo generica, non è molto concreta.
Guglielmo di Occam (in originale: William of Ockham) non fu in realtà così impreciso. Lui era logico, rigoroso.
Una delle sue formulazioni fu infatti: "Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem." (cioè: "Non moltiplicare gli elementi più del necessario.").
Formulazioni alternative nella forma, ma non nel contenuto, sono "Pluralitas non est ponenda sine necessitate." e "Frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora." (lascio a voi le traduzioni 😉).
Cosa significa questo? Significa che per spiegare un fenomeno bisogna scegliere la spiegazione che abbisogna del minor numero di ipotesi (o di leggi o di prove), indipendentemente dalla semplicità intrinseca di queste ipotesi (o leggi o prove).
Non è la semplicità in sé il valore principale quindi, ma la quantità di ipotesi necessarie.
Altrimenti detto: È il numero di ipotesi determinante, meno ipotesi servono, più è da preferire la spiegazione.
Va però aggiunto che quello di Occam è un principio, non una legge.
Cosa significa questo? Che la spiegazione più semplice è da preferire e che generalmente è quella giusta... ma non lo è sempre! Bisogna verificare che detta spiegazione spieghi veramente TUTTO del fenomeno. Se non lo fa, o non è giusta o non è completa.

Due appunti storici.
1) Occam costituisce il culmine di un percorso cominciato con Moses Ben-Maimon (alcuni dicono addirittura con Aristotele, ma mi pare un po' tirata) e portato avanti da Giovanni Duns-Scoto (senza Duns-Scoto non è pensabile Occam, neanche senza rasoio).
2) Il rasoio di Occam è in fondo la prima pietra che secoli dopo con Newton e soprattutto Galilei portò alla definizione e all'affermazione del metodo scientifico.

Saluti,

Mauro.

giovedì 9 luglio 2020

La fallacia logica di chi minimizza

Uno degli argomenti preferiti da chi difende le aperture, i paesi che chiudono poco o nulla e etichetta come catastrofisti coloro che avvertono dei rischi di una seconda ondata è la mortalità: i morti per milione di abitanti nei vari paesi.

Infatti loro fanno notare che paesi come USA (dove il lockdown è durato poco e le riaperture sono state selvagge) e Svezia (dove di fatto non c'è stato lockdown) hanno a oggi una mortalità inferiore a Italia e Spagna (paesi che hanno avuto un lockdown serio).

Bene, se guardiamo i numeri senza ragionare hanno ragione:
USA: 409 decessi per milione di abitanti;
Svezia: 545;
Italia: 578;
Spagna: 607.

Ma è una fallacia logica (da parte di qualcuno probabilmente c'è anche malafede, non tutti sono semplicemente caduti nella trappola logica).

Vediamo perché (intanto premetto che sarebbe in questo caso più intelligente citare la quantità di malati, non di morti, poi ne capirete il motivo).

Partiamo dalla questione cronologica.
L'outbreak negli USA e in Svezia è arrivato molto dopo che in Italia e Spagna.
Quindi i numeri attuali di USA e Svezia andrebbero confrontati con i numeri che Italia e Spagna avevano alla stessa distanza temporale dall'outbreak di quanto sono oggi USA e Svezia, non con i numeri italiani e spagnoli attuali.
E se lo si fa si vede che la Svezia è messa peggio e gli USA sono più o meno allo stesso livello.

Ma c'è un esempio ancora più evidente: prendete lo UK.
Ha avuto l'outbreak sì dopo Italia e Spagna, ma prima di USA e Svezia. E all'inizio si è comportato come la Svezia e ora come gli USA.
Bene:
UK: 657 decessi per milione di abitanti.
Confrontate con i numeri sopra e fate gli auguri a USA e Svezia.

Però c'è anche un'altra confutazione della fallacia logica di cui sopra.
Una confutazione meno quantificabile ma forse anche più forte di quella cronologica spiegata sopra: ora, almeno in parte, sappiamo curare.

Cerchiamo di capire.
È vero che non c'è ancora una cura universalmente riconosciuta per Covid19, però all'inizio in Italia e Spagna c'era a disposizione (si fa per dire, vista la scarsa trasparenza) solo l'esperienza cinese.
I medici brancolavano nel buio o quasi. È anche probabile che in alcuni casi i pazienti siano morti per terapie sbagliate: i medici andavano a tentativi.
Ora questo non succede più: il mondo (USA e Svezia compresi) ha a disposizione l'esperienza non solo solo italo-spagnola, ma europea tutta (anche se l'UK non sembra averla capita, ma questo è un altro discorso).
I medici non hanno ancora a disposizione una cura standard, ma non brancolano più nel buio. Hanno molte più possibilità di prendere la decisione giusta nei tempi giusti.
E questo abbassa (talvolta abbatte) la mortalità.

Ma questa esperienza evita il morire, non l'ammalarsi.
L'ammalarsi lo evitano le misure di prevenzione che certi paesi (sempre più numerosi, purtroppo) rifiutano di adottare.
Ed è proprio per questo che per giudicare USA e Svezia (ma non solo) è più significativo il numero di casi per milione di abitanti (più significativo ancora sarebbe il numero di ospedalizzati, ma è un dato non facile da avere per ogni paese) che quello di decessi, per quanto cinica la cosa possa sembrare.

E questo numero parla chiaro:
USA: 9647 casi per milione di abitanti;
Svezia: 7359;
Spagna: 6419;
UK: 4236;
Italia: 4009.

(N.B.: qualche giorno fa l'UK ha cancellato circa 30000 casi dal computo totale senza dare motivazioni, questo ha abbattuto il numero di casi per milione di abitanti ivi).

Spero di essere stato chiaro.

Saluti,

Mauro.

mercoledì 8 luglio 2020

Il circo dei preprint (sul coronavirus)

È comprensibile che gli scienziati vogliano condividere le proprie ricerche il più presto possibile coi colleghi, ma quando questi preprint diventano di dominio pubblico prima di passare per la peer review può essere un problema.

Molti di voi ricorderanno uno studio condotto su pazienti Covid19 in Italia e Spagna a giugno e che in qualche modo associava la gravità dell'infezione al gruppo sanguigno. Studio criticato (e almeno in parte smontato) da più parti.

Ma non è direttamente di questo studio che vi voglio parlare, bensì di uno studio tedesco che su questo si è basato per andare oltre. Studio pubblicato in preprint su bioRxiv il 3 luglio scorso. Intanto chi sono gli autori di questo studio? Svante Pääbo, considerato uno dei più autorevoli paloegenetisti al mondo. Sì, paleogenetista, non biologo, infettivologo o virologo. E Hugo Zeberg, che si occupa di neurologia e antropologia.
Cosa hanno "scoperto" questi due ricercatori, rileggendo i dati dello studio citato all'inizio?
Che i geni associati alla maggiore severità dell'infezione sono i geni che ci accomunano ai Neanderthal. Altrimenti detto: chi di noi ha più geni ereditati dai nostri cugini Neanderthal (che ci sia stato incrocio tra Sapiens e Neanderthal è ormai fatto accertato senza ombra di dubbio da tempo) più sarebbe a rischio di contrarre l'infenzione in forma grave.
Lo studio è già stato smontato, ma in certi ambienti sta ricevendo discreto ascolto e successo.
Un ottimo riassunto di tutti i "bachi" di questo "studio" lo trovate in questo articolo della Süddeutsche Zeitung. Il punto principale è che la serie di geni da cui si è dedotto il collegamento in Europa (da dove vengono i dati) è presente nell'8% della popolazione, mentre nel SE asiatico nel 30% e in Bangladesh addirittura nel 60%. In Bangladesh dovrebbe essere una strage peggiore che in qualsiasi altro posto. Oltretutto un altro scienziato ha fatto notare che questo studio dei paleogenetisti può sì essere importante... ma non certo per capire chi è più a rischio di grave infezione, bensì per capire perché alcuni geni Neanderthal si sono trasmessi e altri sono spariti.
La morale è: è utile condividere gli studi in preprint, ma chi li legge (soprattutto se non esperto del settore) deve prenderli non solo con le pinze... ma anche con guanti, mascherine e disinfettante!

Saluti,

Mauro.

martedì 7 luglio 2020

Le parole della scienza in tempo di pandemia

In questi giorni ho scritto qualche commento ad altrui tweet sulla dichiarizione di Zangrillo secondo cui il virus sarebbe ora clinicamente inesistente, ma non ho scritto nulla di mio.
Stasera vorrei farlo, ma focalizzandomi sulla comunicazione.
Cosa intendo?
A mio parere, e questo indipendentemente dal fatto che abbia ragione o torto, Zangrillo ha espresso il suo pensiero in una maniera dannosa. Dannosa proprio nella forma, non sto qui giudicando la sostanza.
Quando si parla di scienza in pubblico - e a maggior ragione quando la cosa riguarda la salute pubblica - bisogna tener conto di chi ci ascolta. E in questo caso sono soprattutto profani, quindi persone che nella migliore delle ipotesi capiranno in base al senso comune, non in base al senso scientifico.
I tecnicismi non li capiranno o li capiranno in base all'uso comune delle parole, non in base al loro uso scientifico. Se tu dici "virus clinicamente inesistente" tu intendi scientificamente una cosa ben precisa: che il virus non è in questo momento un problema clinico, cioè ospedaliero.
Non intendi che il virus non esista più (e infatti Zangrillo ha poi dovuto specificarlo, ma anche qui con una qualità comunicativa molto, molto scadente). Però è quello che il profano capirà! O al limite capirà che il virus non fa più male, che è diventato totalmente innocuo.
Quindi tu hai fatto danni, anche nel caso che la tua affermazione fosse stata scientificamente corretta al 200%! Cosa credete che abbia spinto, per esempio, il manager vicentino a fregarsene dell'essere contagiato e a rifiutare il ricovero (finendo intubato in UTI e infettando un sacco di gente)?
Quando si parla - e nel campo della salute ancora di più che in altri ambiti - bisogna pensare con attenzione alle parole che si usano e adattarle all'audience.
Lo ammetto, noi scienziati tendiamo spesso a dare per scontate cose che per i non scienziati non lo sono.
Ma mentre nella maggioranza dei casi la cosa può al massimo venire presa come arroganza... in questo caso, dove ne va della vita di migliaia di persone, usare le parole sbagliate è criminale!

Saluti,


Mauro.