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sabato 8 luglio 2023

Non si bruciano i libri

Da un po' di giorni si parla molto dell'atto di Salwan Momika, rifugiato iracheno in Svezia.
Questi, a Stoccolma, ha strofinato pancetta su un Corano, lo ha calpestato e poi ne ha bruciato alcune pagine.

Ora, che a livello politico le reazioni nel mondo islamico siano state esagerate, assurde è palese, essendo per di più l'atto di un singolo individuo.
Comunque a livello di considerazioni politiche avete letture più che a sufficienza in rete, sia pro che contro. Non ci aggiungo le mie. A questo punto sarebbe solo aggiungere rumore al rumore.

Però una cosa posso e voglio dirla.

Io posso capire lo stato d'animo di Momika, la sua frustrazione, al limite anche il suo odio.
Non so cosa abbia subito in Iraq e dagli islamisti, ma di sicuro nulla di piacevole né di giustificabile o di accettabile.
Io posso capire... ma i libri non si bruciano.

Bruciare un libro significa voler tappare la bocca a chi quel libro lo ha scritto e a chi lo legge.
Quando bruci un libro (che sia un testo religioso, politico, letterario o qualsiasi altra cosa) commetti un atto di censura, di repressione, perché vuoi mettere a tacere quel libro e chi lo legge.

Se bruci un libro, anche il peggiore e più pericoloso dei libri, sei un intollerante quanto quelli che combatti. Se quel libro è pericoloso, negativo ne combatti i contenuti con gli argomenti, non con le fiamme. Soprattutto quando non sei più sul posto, ma vivi in un paese sicuro.
Se usi le fiamme significa che se tu dovessi andare al potere al posto dei tuoi nemici li opprimeresti come loro hanno oppresso te.
L'unica differenza sarebbe l'inversione dei ruoli tra persecutori e perseguitati.

Perché...

[...], dort wo man Bücher
Vebrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen.

[...], dove si bruciano i libri,
alla fine si bruciano anche gli uomini.

(Heinrich Heine, "Almansor", versi 243-4)

Saluti,

Mauro.

sabato 5 marzo 2016

Confronti infamanti

Nelle ultime ore ho letto/sentito più volte il paragone tra la morte di Quattrocchi in Iraq nel 2004 e quella di Failla e Piano ieri (o forse l'altro ieri) in Libia.

Paragone assurdo e offensivo nei confronti di Failla e Piano.

Quattrocchi era un mercenario. Ergo un delinquente e un assassino. Che per soldi non aveva problemi ad ammazzare, ma che sapeva di poter essere lui l'ammazzato (in realtà dell'ultima cosa non ne sono sicuro visto che Quattrocchi non era certo un genio dotato di troppi neuroni).

Failla e Piano non erano mercenari. Erano tecnici che lavoravano. Non sicari che ammazzavano.

Failla e Piano sono vittime.
Quattrocchi no.
Quattrocchi era solo un sicario. Un sicario che alla fine ha trovato un sicario migliore di lui.

Saluti,

Mauro.

venerdì 12 settembre 2014

Parole e sanzioni

UE e USA hanno deciso nuove sanzioni contro la Russia a causa della crisi ucraina.

Ora, al di là dei discorsi morali (le sanzioni colpiscono le elites o il popolo?) e dei discorsi politici (ha più colpe la Russia o l'Ucraina? e siamo sicuri che l'occidente sia innocente?), io pongo una domanda molto banale, terra terra, pragmatica: che siano giuste o sbagliate, le sanzioni portano risultati?

Se io guardo la storia recente mi verrebbe da dire che l'unico risultato che portano sia ideologico (a casa di chi le applica, non di chi le subisce): rafforzano, appunto, l'appartenenza ideologica a questo o quel partito a seconda dell'essere favorevoli o contrari.

Ma a casa di chi le subisce direi che ottengono proprio poco, se non nulla.

Due esempi su tutti.

1) Iraq. Dopo la prima guerra del golfo il regime di Saddam è stato subissato di sanzioni. A parte ciò, non si può certo neanche dire che avesse la maggioranza degli iracheni dalla sua... eppure per buttarlo giù è servita una guerra di invasione. Se si aspettavano i risultati delle sanzioni stava ancora lì oggi.

2) Cuba. A torto o a ragione, da 50 anni Cuba è vittima di un embargo da parte degli USA e dei loro alleati. Eppure, nonostante la perdita del grande alleato (il blocco sovietico) e la posizione geografica scomodissima (praticamente nel giardino di casa degli USA), il regime castrista è ancora lì, un po' ammorbidito ma per niente piegato.

E potrei farne altri di esempi.

Quindi ripeto: a cosa servono sanzioni ed embarghi?
Beh, a questo punto direi che è chiaro: alla politica interna di chi le applica, non di chi le subisce.
Almeno in teoria. In pratica forse neanche a quello, ma solo a riempire pagine di giornali.

Saluti,

Mauro.

mercoledì 27 settembre 2006

Morire è parte del lavoro di un soldato

È morto un altro militare italiano in missione all'estero. In Afghanistan per la precisione. In un attentato.

Qualunque cosa si possa pensare delle missioni all'estero e del concetto di "militare" in generale, la memoria di Giorgio Langella merita il nostro rispetto, va onorata.
Lui era lì per fare il suo lavoro (per brutto che potesse essere), per guadagnarsi da vivere.

Quello che invece merita decisamente meno rispetto è il solito blabla sul fatto che bisogna proteggere i nostri soldati, che bisogna far sì che non rischino la vita, eccetera, eccetera.

Quanta ipocrisia.

Il lavoro del soldato è pericoloso. È, detto in maniera molto brutale, sparare e farsi sparare.
Che senso ha dire "Mandiamo i nostri soldati all'estero solo se siamo in grado di proteggerli". Proteggerli come? Se la situazione non fosse pericolosa, non ci sarebbe bisogno di mandarceli. O sbaglio? Oppure i civili (italiani o meno che siano) possono morire, mentre i soldati no? Eppure credevo che fossero i soldati a dover proteggere i civili, non viceversa.

Esistono missioni giuste e missioni sbagliate. Questo è chiaro.
Non posso certo mettere sullo stesso piano la missione in Libano e quella in Iraq.
Però si sa che entrambe sono pericolose.

L'unico modo di "proteggere" i nostri soldati è non mandarli in missioni sbagliate, amorali, di vera e propria guerra d'occupazione.
Però se come popolo riteniamo che il paese debba avere una politica estera è inevitabile partecipare a missioni internazionali. Bisogna solo "limitarsi" a quelle che hanno una giustificazione morale o che (al peggio) servono a evitare danni peggiori.

Però poi una volta accettate queste missioni bisogna saper convivere coi rischi. Come già detto il mestiere del soldato è un mestiere pericoloso: i militari di professione (che generalmente sono molto meno guerrafondai di molti civili, questo va detto) lo sanno e lo accettano.
Sarebbe ora che lo capissero anche i civili. E soprattutto i politici.

Oppure bisogna avere il coraggio di dire: non vogliamo una politica estera, chiudiamoci in noi stessi. Ma allora, oltre che tutte le missioni militari all'estero, per coerenza dovremmo chiudere anche tutte le ambasciate e i consolati.

Saluti,

Mauro.