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martedì 28 febbraio 2023

Combattere le differenze

Giusto sostenere chi non ha reddito.

Giusto che il sostegno consenta una vita decente.

Va bene usare strumenti come il reddito minimo, il reddito di cittadinanza o simili per combattere la povertà e le differenze sociali.
Ma il sostegno non deve essere tale da invogliare a non lavorare.

E il lavoro in nero mentre prendi sussidi va ovviamente combattuto: bisogna renderlo pericoloso o almeno non conveniente. Controlli incrociati: quello che ti permetti deve essere congruente col sostegno che ottieni dallo stato... se no significa che lavori in nero.

Ma soprattutto ogni situazione va valutata in sé. Lo stato deve essere flessibile.

Non puoi trattare allo stesso modo chi vive ad Amburgo o a Milano e chi vive nell'Oberpfalz o in Molise.
(Oh, vale per ogni paese: io uso esempi italiani e tedeschi solo perché Italia e Germania sono, ovviamente, i paesi che conosco meglio).

Devi valutare i costi della vita sul territorio, non solo i costi della vita medi nazionali.

Che poi cercare di ridurre le differenze tra le regioni sia giusto, è vero. Anzi è giustissimo ed è un obbligo dello Stato! È sacrosanto.
Ma non è dando sussidi, redditi minimi, redditi di cittadinanza uguali che combatti il problema.
Il problema lo combatti attaccando le differenze alla base.
Non attaccando i suoi effetti, non dando quattro soldi a chi non ce l'ha fatta (e oltretutto dando gli stessi soldi a chi vive a Milano e a chi vive a Enna... i costi della vita sono ovviamente diversi).
Lo combatti dando la possibilità a questi ultimi di farcela. Dando loro la possibiltà di partire alla pari degli altri.

Perché se non lo fai, sei tu, Stato, a creare il divario tra loro e gli altri.
E allora i sussidi che gli darai dopo diventano solo elemosina.
Ma l'elemosina non crea crescita, non crea ricchezza.
E non abbatte le differenze.
La crescita e la ricchezza le crei - mi ripeto - attaccando i problemi alla base.
Che è poi anche l'unico modo di combattere le differenze.

Saluti,

Mauro.

domenica 13 maggio 2018

Spieghiamo le aliquote fiscali e la flat tax

Premettiamo che stiamo parlando della tassa sul reddito, la cosiddetta IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche).
Uno dei temi caldi delle trattative di governo è la questione fiscale: flat tax o non flat tax?
A parte che alcuni dei protagonisti non sembrano aver capito cosa sia veramente questa flat tax, chi la difende - oppure contesta solo l'attuale sistema delle aliquote - usa spesso argomenti (anche, anzi soprattutto, matematicamente) sbagliati.

I due argomenti tipici sono:
a) i ricchi "pagano il pasto" per tutti (in contrapposizione all'argomento anti flat tax secondo cui con essa se io mangio pizza e birra e tu aragosta e champagne, paghiamo metà per uno, cioè alla romana - argomento comunque sbagliato anch'esso);
b) perché uno deve pagare solo il 23% (aliquota minima) di tasse e uno il 43% (aliquota massima e no, nessuno alla fine paga veramente il 43% di tasse)?

Intanto, come sono le aliquote in Italia?
1) da 0 a 15000 € annui, 23%;
2) da 15000 a 28000 €, 27%;
3) da 28000 a 55000 €, 38%;
4) da 55000 a 75000 €, 41%;
5) oltre 75000 €, 43%.
Vi è poi una fascia esentasse, variabile tra 0 e 7500 € a seconda di diversi parametri, ma che vale per tutti (e che nei calcoli seguenti per semplicità ignorerò, perché ininfluente ai fini concettuali e avente di fatto l'unico risultato di rendere nella realtà alla fine un po' più basse tutte le percentuali che vi calcolerò e di esentare totalmente dalle tasse solo le persone che guadagnano 7500 € l'anno o meno).

Ora, da quanto appena scritto capirete subito l'assurdità del punto a) di cui sopra: chiunque guadagni da 7501 € all'anno in su paga qualcosa, quindi non è vero che i ricchi pagano il pasto a tutti. Infatti uno che guadagna 10000, 20000 ma anche 50000 € all'anno non lo definirei ricco. Eppure paga il suo pasto (giustamente lo paga, aggiungo io).

Veramente interessante è però il punto b).
Nessuno alla fine paga il 23% di tasse. Ma soprattutto nessuno paga veramente il 43%. E la spiegazione è semplice matematica.
In teoria chi guadagna fino a 15000 € annui sembra pagare esattamente il 23% (cioè su 15000 €, 3450 € andrebbero allo Stato). In realtà - a causa della fascia esentasse citata - pagherà comunque meno del 23% (quanto meno dipende da diversi fattori).
Vediamo cosa succede a chi va oltre i 15000 €.
Prendiamo tre esempi: un reddito basso (25000 € annui), uno medio (50000) e uno alto (100000).
Reddito basso: paga il 23% sui primi 15000 € e il 27% sugli ulteriori 10000, cioè 3450+2700=6150 €. Il che significa che nel complesso paga il 24,6% di tasse (ignorando la fascia esentasse).
Reddito medio: paga il 23% sui primi 15000 €, il 27% sui successivi 13000 e il 38% sugli ulteriori 22000. Nel complesso 3450+3510+8360=15320 €, ergo il 30,64% del suo reddito (sempre ignorando la fascia esentasse).
Reddito alto: paga il 23% sui primi 15000 €, il 27% sui successivi 13000, il 38% sui successivi 27000, il 41% sui successivi 20000 e il 43% sugli ultimi 25000. Cioè 3450+3510+10260+8200+10750=36170 €, che sono il 36,17% del proprio reddito, decisamente inferiore quindi al 43% che i sostenitori della flat tax sostengono.

Però come ho scritto prima anche l'argomento "pagamento alla romana" dei nemici della flat tax è matematicamente sbagliato.
Pagamento alla romana significa che tutti pagano la stessa cifra in termini assoluti, non che tutti pagano la stessa percentuale.
"Alla romana" significa che chi guadagna 25000 € l'anno paga, per esempio, 7500 € di tasse, ma anche chi guadagna 50000 o 100000 paga sempre 7500.
Flat tax significa invece che - ipotizzando per esempio un'aliquota unica del 30% - chi guadagna 25000 paga 7500, chi guadagna 50000 paga 15000 e chi guadagna 100000 paga 30000.

Vedete che sapere un po' di matematica aiuta anche a non farsi prendere in giro dalla propaganda sulle tasse?

Saluti,

Mauro.

giovedì 26 aprile 2018

No, non sono paragonabili

In questi giorni si è fatto tanto chiasso sul "fallimento" dell'esperimento finlandese col cosiddetto reddito di cittadinanza.
Il luogo comune più usato: "Se ha fallito lì, figuriamoci cosa succederebbe qui da noi!".

Balle. Succederebbe semplicemente lo stesso, come succederebbe in qualsiasi altro paese del mondo: un reddito "gratis" è il sogno di tutti a ogni latitudine.
Per i fannulloni in maniera da vivere senza far niente.
Per gli altri in maniera da dedicarsi ad attività di soddisfazione personale (anche costruttive e produttive per la società eventualmente) senza l'assillo di dover aver successo a tutti i costi e possibilmente alla svelta.
E questo vale in Finlandia, in Italia, a Tuvalu, in Canada, in Uganda, in Svizzera, in Cambogia e in qualsiasi altro paese del mondo. Punto.

Però il problema vero è che il confronto dell'esperimento finlandese con la proposta del M5S non sta proprio per niente in piedi.
Al di là di Italia e Finlandia, di italiani e finlandesi.

Il reddito di cittadinanza proposto dal M5S pone delle condizioni precise per ottenerlo. Certo, sono molto più lasche delle condizioni poste dall'attuale reddito di inclusione (o dai vari sussidi sociali/di disoccupazione esistenti) o da analoghi sostegni in Germania o altri paesi e sembrano fatte per venire incontro ai fannulloni, ma queste condizioni ci sono, non lo si può negare.

Il reddito di cittadinanza finlandese era incondizionato a meno di non essere di fatto ricchi: potevi anche lavorare e continuare a riceverlo, potevi non cercare lavoro e dire chiaramente all'ufficio di collocamento di non chiamarti nemmeno e continuare a riceverlo, potevi fare quel che cavolo ti pare e continuare a riceverlo, ecc. ecc.
Scusate, ma come poteva funzionare una cosa del genere?

E ditemi, come fate a paragonarlo alla proposta del M5S (o a proposte analoghe di altri partiti)?
Ecco, cari giornalisti, politici, politologi ed economisti, state semplicemente confrontando mele con pere.

Saluti,

Mauro.