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lunedì 12 novembre 2018

Due principi per l'integrazione

Prima di fraintenderci: in questo articolo non parlo di cittadinanza. L'integrazione riguarda chiunque viva in un paese diverso da quello di nascita, indipendentemente dal fatto che voglia/possa richiederne la cittadinanza.

Quando si parla di integrazione bisognerebbe distinguere tra due livelli: quello burocratico e quello sociale.

A livello burocratico quando mi trasferisco in un altro Stato io ho il dovere di informarmi su quali documenti e condizioni servono per ottenere il diritto di vivere e lavorare in quello Stato (e poi presentarli completi alle autorità locali) e detto Stato ha il dovere di mettermi a disposizione uffici che mi aiutino a orientarmi riguardo alle procedure burocratiche (generalmente si tratta di sportelli appositi presso gli uffici anagrafe, ma il come e il dove in fondo è secondario).
E... e tutto qui. A parte il sottinteso dovere poi di rispettare la legge, né io come persona né lo Stato che mi accoglie abbiamo altri doveri.

Però parliamoci chiaro: questo esaurisce la parte burocratica dell'integrazione ma se ci si limita a quello non si va poi molto lontano.
Uno é sì a posto legalmente, ma socialmente rischia di rimanere un escluso, di vivere tra casa e ufficio (o officina o fabbrica o che altro sia) e stop.
Ci sono persone che sono contente così, ma la maggioranza non si accontenta.

Come fare per integrarsi socialmente?
Su questo tema si può discutere all'infinito.
È chiaro che serve volontà da entrambe le parti: da parte di chi arriva di inserirsi nella nuova realtà e da parte del paese di arrivo di agevolare l'inserimento di chi ha questa volontà.
Ed è chiaro anche che serve, da parte di detto paese, un approccio diverso verso chi arriva per scelta senza tragedie alle spalle (come il sottoscritto che si è trasferito in Germania perché voleva fare esperienze internazionali e poi qui si è fermato) e verso chi scappa da situazioni di guerra, persecuzione o anche solo estrema povertà.

Però a mio parere ci sono due punti imprescindibili che riguardano tutti coloro che arrivano in un nuovo paese, indipendentemente dal modo e dal perché ci arrivino.

Se tu arrivi in un nuovo paese hai comunque due doveri:
1) la tua religione, le tue tradizioni, le tue convinzioni personali vengono dopo la legge del paese che ti accoglie; se - per esempio - un precetto della tua religione va contro la legge del paese che ti accoglie... mi dispiace per il tuo dio, ma non hai diritto a eccezioni, devi buttare via quel precetto e rispettare la legge;
2) non puoi venirmi a dire che tanto l'inglese lo parlano ormai tutti o che la comunità di tuoi connazionali in quel paese è sufficientemente vasta da permetterti di andare avanti con la tua lingua; no, devi imparare a farti capire nella lingua del luogo (non serve impararla alla perfezione, basta un livello di base, ma comprendente la grammatica... quindi che vada oltre le poche parole - spesso poi in dialetto - che impari sul posto di lavoro ascoltando i colleghi).

Ecco, se tu non accetti questi due punti, non puoi pretendere nulla dallo Stato che ti accoglie a parte l'aiuto per le procedure di registrazione citato all'inizio.
Se invece accetti questi due punti, poi puoi anche chiedere allo Stato di venirti incontro mettendoti a disposizione corsi di lingua ed eventualmente corsi che ti spieghino le leggi che ti riguardano e possibili "collisioni" con pratiche religiose, culturali o altro a cui sei abituato.

Saluti,

Mauro.

martedì 5 giugno 2018

Balotelli e la fascia

Negli ultimi giorni, con le ultime amichevoli stagionali della nazionale italiana di calcio, si è improvvisamente presentato un "problema": la possibilità che Mario Balotelli indossasse la fascia di capitano.

Gli uni a plaudire alla possibilità perché sarebbe un forte segnale di integrazione (in realtà ipocrisia politicamente corretta).
Gli altri a contestare i meriti morali di Balotelli, tirando in ballo le famose "balotellate" (in realtà ipocrisia razzista per nascondere il fatto che volessero un capitano bianco).

Peccato solo che sia un problema non problema.
Semplicemente non esiste, è un problema inventato.

La nazionale italiana di calcio ha sempre avuto la regola che il giocatore col maggior numero di presenze in campo porta la fascia di capitano.
Quindi se un giorno capiterà che Balotelli dovesse essere il giocatore nell’11 iniziale con più presenze sul groppone quel giorno avrà la fascia. E non per questioni di integrazione o politiche.
Se tale evenienza non capiterà mai, se non sarà mai il giocatore in campo con più presenze, la fascia non la porterà mai. E non per questioni caratteriali o politiche.
Punto.

L’integrazione, le balotellate e altre seghe mentali non c’entrano un cazzo, se non a riempire le TV e i giornali di chiacchiere e stronzate.
Sono, appunto, solo seghe mentali per inventarsi un problema che non è un problema (e magari per nasconderne, farne passare sotto silenzio altri che esistono veramente).

Saluti,

Mauro.

sabato 10 dicembre 2016

Cos'è l'integrazione? Ditemelo!

Stasera (anzi, ormai ieri sera, visto che è già l'una e mezza passata del mattino) il telegiornale tedesco ha di nuovo parlato dell'integrazione dei migranti*.

Purtroppo ogni volta che sento parlare di integrazione mi rendo conto che integrazione è solo una parola.
Infatti da un lato si pretende assimilazione totale e dall'altro solo diritti senza doveri.
Entrambe cose che con l'integrazione (e con la democrazia e il convivere civile) a mio parere nulla hanno a che fare.

Ora, prima di fare filippiche e disanime mie varie, vorrei chiedere a miei pochi ma validi lettori (anzi: lettori e lettrici, se no la Boldrini mi fulmina): cosa è per voi l'integrazione, cosa dovrebbe caratterizzarla?

Saluti,

Mauro.

*Già per me la parola migrante è sbagliata. Io conosco emigrati/emigranti e immigrati/immigranti. Migrante può essere solo chi migra qua e là per tutta la vita senza avere mete... insomma un nomade... ma per il politically correct va bene così.